Alberto Tomasi 

                                                da Solidarietà n.6 del 18 nov 2000


Recensione di Lungo il greto del Leno  di Alberto Tomasi

L’altra faccia di Alberto Sighele

Dire di Alberto Sighele, della sua parola potente e di quelle sue mani fatte apposta per spezzare il pane anche agli altri, della sua insistenza non doma ad occuparsi delle vicende del mondo, di tutto quello che lui è per molti che lo hanno conosciuto, passo dopo passo, lungo i sentieri di Solidarietà, dire solo questo di lui sarebbe fargli torto. Oppure altri, meglio di me, più addentro alla sua storia, potrebbero avere parole giuste per raccontarlo.

Io preferisco guardarlo da lontano e misurarlo, ben sapendo che molti pezzi di lui mi mancano. Allora, necessariamente, lo posso scoprire indagando quella parte di lui che apparentemente stona con il suo passo per nulla indulgente, con la sua asciutta concretezza che stringe i compagni, gli amici a prendere subito posizione, a non perdersi in chiacchiere. E se l’Alberto Sighele politico ormai ha illustrato il nostro immaginario fino a farci pensare ad una sorta di Aiace solare nella sua indignazione, ecco attraversare la nostra strada l’altro Alberto Sighele, quello irrequieto e commosso che si rivela come una variazione della pinkfloydiana The Dark Side of the Moon: anche lui ha una faccia nascosta o, meglio, una faccia che rompe con un’interpretazione convenzionale della sua umanità e della sua generosità.

Perché di questo, a mio avviso, si tratta, nel momento in cui si incomincia ad esplorare la sua poesia: di lasciarsi andare alla varietà di voci che Alberto spende per narrare di sé, dei suoi sentimenti, delle sue visioni che sono pagine scolpite nelle pieghe di una quotidianità liberata da una lettura banale e indistinta.

Queste tracce io ritrovo anche nel suo lavoro, Lungo il greto del Leno, verso che – secondo me – sposta l’attenzione del lettore dal centro apparente della lirica, Operoso e discreto, che apre la raccolta e che ripensa la figura dell’attuale sindaco di Rovereto, Roberto Maffei. Forse perché quella sua interpretazione, a me inesperto di cose roveretane, riletta a distanza da quando fu scritta mi costringe a scegliere fra una gentile dichiarazione ovvero un insidioso vaticinio. Nel dubbio, fermarsi su quell’ultimo verso, mi riporta su un percorso meno impervio e mi riconcilia con l’idea che ho di Alberto Sighele poeta: nel greto si conferma la materialità dell’autore e se il Leno è l’ovvio teatro delle sue gesta, quel lungo sottolinea la sua urgenza nell’agire, nel dire, quella sua fatica a star fermo, con le mani in mano.

Girovagando quindi tra le righe del libro si incontra una maglia di storie, di appunti, di soglie, di scatti indignati, di secchi giudizi. Alberto ricuce paziente una sua propria epopea di una Rovereto non aulica che muore e vive insieme (si pensi, ad esempio, all’affannato respiro che anima Manifattura, al degrado di Case sfitte, all’andamento di danza popolare che regge con ironia La ballata del consiglio), un poco sfatta, a volte un poco volgare nel suo adeguarsi al mondo che viene avanti, ma anche con pause che rincuorano e gesti che lasciano speranze. Altri hanno detto, con competenza, del tono e dello spessore di questa poesia civile che, senza risparmio, si spende, con irosa indignazione oppure con sobria ironia per raccontare lo zoo umano che disegna, sincope e fuga, una città, la sua gente, i volti amici, le avverse vite. A me non spiace invece fermarmi su quei versi che propongono un Alberto che un tempo avremmo detto inedito e che, solo ad un’affrettata lettura, definiremmo spiazzante. È il poeta che apre i suoi sentimenti e non ha paura di svelare un suo orizzonte sensuale che aggiusta con il puntuale rinvio ad una ruvida tenerezza. Resterò solo / come un comignolo scrive con dolce ambiguità, celebrando la “più mora delle mie capolista”; mi porgeva il pane e il latte / sopra il bancone / come mi desse / tutta / se stessa, si esprime in un’altra lirica con toni che echeggiano la finta semplicità di un Prevert. In Anna e Dario conclude se tu sei il mio giorno / sarò tuo calendario, con penna leggera. La vita è una porta / tenuta aperta / da molte mani: così si chiude la raccolta, con tre versi che coniugano slancio poetico e necessità d’impegno. Alberto Sighele si muove con questo respiro, a volte vento, a volte soffio. C’è un poco dello spirito, ribelle, disincantato, romantico di Boris Vian in Alberto Sighele, cantore senza spartito che sulla pagina bianca inventa note fatte di parole a volte studiate, altre improvvise, altre risentite, a volte salate, altre vicine al cuore.